Riavvolgete di poco più di ventiquattro ore il nastro.
Max Verstappen inizia uno dei giri di qualifica più esaltanti dell’era moderna scodando in curva 2 fino a sfiorare il muretto. Tra la spalla del suo pneumatico posteriore destro e il blocco di cemento troverebbe a malapena spazio un foglio di carta. Da quel momento in poi, per più di cinque chilometri, l’olandese pennella traiettorie perfette, una dietro l’altra. Eleva la propria Red Bull ad una dimensione nuova, inesplorata, che supera il viaggiare su dei binari tipico di un’ottima tornata a vita persa. Fino all’ultima curva.
L’ultima, maledetta curva dove arriva una decina di chilometri l’ora più veloce che in precedenza, tanto è strabiliante il suo guidare. Frena addirittura qualche metro prima del tentativo precedente ma non basta. Bloccaggio, sporco, muro, stop.
Addio pole position. Su una pista in teoria favorevole alla Mercedes, e probabilmente anche in pratica; l’assetto Red Bull su gomme a banda rossa è però perfetto, le W12 faticano enormemente a gestirne la temperatura e l’olandese avrebbe aggiunto il micidiale contributo personale.
Un potenziale colpo da KO trasformatosi in un nano secondo nel nulla assoluto. Un episodio da puro romanticismo delle corse, una di quelle occasioni in cui lo sport sembra ricalcare la vita di ognuno di noi, perché a chi non è mai capitato di rimanere all’ultimo con le pive nel sacco. Basta una frazione di secondo per accorgersene e si gela il sangue, travolti dalla consapevolezza di aver commesso un errore stupido, di essere stati sfortunati o sbadati o negligenti.
Insomma, il sabato di Jeddah, con un Hamilton concretamente spietato, aveva regalato l’ennesimo capitolo esaltante di una storia stupenda.
Avanti veloce alle 22 italiane di domenica 5 dicembre e la Formula Uno ha vissuto una delle pagine più tristi della sua storia recente.
Anzitutto è fondamentale ricordare come, al momento della scrittura di questo pezzo, sia Verstappen che Hamilton debbano comparire davanti ai commissari di gara per giustificare la propria condotta in pista, sulla quale torneremo tra poco.
Per dovere di cronaca, lo stesso vale per Leclerc e Perez, il cui contatto è sembrato ai più fortuito; immaginare una penalità per il monegasco, stretto contro il muro dal messicano, rasenta il fantasioso mentre lo stesso Sergio, vittima di negligenza propria, sembra aver pagato un prezzo sufficientemente alto con il proprio ritiro.
I due contendenti al titolo si avviano verso Abu Dhabi a pari punti. Uno scenario da sogno per l’intero Circus, il degno finale di una stagione palpitante. Eppure, ammesso non vengano comminate penalità nella notte saudita, vi arrivano sommersi in un mare di polemiche.
La maggior parte delle quali inutili e, soprattutto, auto-lesioniste per l’intero sistema della Formula Uno. Quanti incontri ravvicinati tra Lewis e Max sono davvero stati scorretti in questa gara? Uno, forse due? A parere di chi scrive, l’unico episodio seriamente pericoloso è avvenuto in occasione del secondo ‘scambio di posizione’ tra i numeri 33 e 44, quello avvenuto dopo la notifica della penalità di 5 secondi a Verstappen. In quel caso l’olandese ha rallentato di colpo e in piena traiettoria; solo la relativa distanza tra le due monoposto ha evitato conseguenze serie.
Per il resto, i due contendenti al titolo si sono affrontati in maniera maschia, senza esclusione di colpi, furbizie e sbavature. Alla prima ripartenza Verstappen ha chiaramente esagerato tagliando la variante iniziale; sarebbe bastato cedere la posizione ad Hamilton immediatamente, o accettare 5 secondi di penalità vista la presenza di Ocon, e la questione sarebbe finita dritta in archivio. La bandiera rossa ha determinato un evolversi diverso delle cose ma Verstappen non ha di certo compiuto una manovra criminale. Allo stesso modo, Hamilton in occasione del sorpasso finale ha accompagnato eccessivamente largo il rivale.
L’inglese è stato poi molto poco scaltro nel finire dritto nella trappola di Verstappen in occasione del primo scambio di posizioni: l’olandese, desideroso di ottenere il DRS per tentare il contrattacco, ha rallentato con malizia ma gradualmente; Lewis, piuttosto di non cedere, ha puntato l’avversario fino a non aver più spazio per una manovra evasiva. Un giochetto in parte simile a quanto accaduto nel 2017 a Baku, con Hamilton nei panni di Verstappen e Vettel in quelli di vittima/tamponatore, successivo fallo di reazione a parte.
Episodi in larga parte figli di una competizione esasperata e della posta in palio si sono trasformati in controversie legali solamente perché, nella Formula Uno di oggi, ogni singola azione dei piloti viene passata al microscopio. Gli stessi protagonisti assumono una forma mentis conseguente e, follie del direttore di gara a parte, invocano ad ogni contatto o ipotesi di controversia l’azione dei commissari.
Difficilmente gli steward rimangono indifferenti e si innesca un girone dantesco dal quale è impossibile uscire intatti. Dalla distanza nel giro di ricognizione fino al portare l’avversario all’esterno, ogni episodio viene revisionato, con il risultato che non si comprende più cosa sia possibile, ammesso, tollerato e cosa invece no.
Se poi aggiungiamo all’equazione un direttore di corsa in bambola – le tempistiche della prima bandiera rossa sono rivedibili e le contrattazioni stile bazar sulla posizione di ripartenza di Verstappen un deprimente svilimento della figura -, una pista pericolosa e ideata apposta per creare caos, il quadro si complica fino all’infinito.
Tanto da assomigliare, purtroppo, ad una farsa.
Siamo proprio sicuri vada bene così?
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