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  • Immagine del redattoreLuca Ruocco

Assomigliare a Schumacher




Curiose le corse. Si passa una vita a rincorrere il sogno di eguagliare il proprio idolo, lo si sfiora e poi, in un’agonia senza vie d’uscita, si finisce per assistere al suo inesorabile dissolversi. Perché quando si parla di somiglianze in Formula 1, si dimenticano i tratti del viso, le movenze o gli atteggiamenti. Le associazioni scattano da gare, episodi, prestazioni mirabolanti e vittorie. Guardalo lì, è scappato via come Clark. Che difesa della posizione, sembra Senna. Gestisce la corsa come Prost.


Sebastian Vettel voleva di più. Lo ha ripetuto spesso: il suo più grande desiderio sportivo era – imprescindibile l’uso del tempo passato – ripetere le imprese di Michael Schumacher in Ferrari. Uno o più titoli mondiali, un ciclo esaltante che riportasse Maranello al centro del mondo, il decimo casco nella Sala dei Campioni del Museo Ferrari. Forse sbagliava lui, forse veniva trascinato da un’opinione pubblica miope e troppo affrettata nell’accostarlo a qualcuno che rimarrà, almeno nella storia Rossa, probabilmente irraggiungibile. Fatto sta che, oggi, Vettel ha raggiunto il punto più distante nella sua avventura dall’epopea di Schumi. Il confronto è farlocco, Michael non ha mai guidato una SF1000 (ma la F2005 o la F310 sì) né ha vissuto la Scuderia del 2020. Sono il rapporto con l’ambiente e le prestazioni del pilota a rimarcare distanze siderali. Amplificatesi nel tempo e figlie di responsabilità comuni, questo è innegabile, ma chi è il ragazzo sedutosi al volante della monoposto numero 5 questo pomeriggio? Esistono mille motivi per cui Sebastian possa essersi ritrovato a passare sull’erba colpendo il salsicciotto rosso che ha innescato la perdita del posteriore: il bloccaggio di Leclerc poco più avanti, l’ombra di Sainz alla sua sinistra o la semplice volontà di evitare guai in partenza. Rimane un errore che tutto sommato, alla prima curva ed in mezzo al gruppo, può capitare. Com’è possibile però che Vettel non riesca più a controllare la vettura una volta innescatasi una sbandata? Chi si ricorda l’ultimo salvataggio del tedesco? Perché ad ogni situazione critica le sue correzioni sembrano non riuscire mai ad essere efficaci, senza che i numerosi movimenti del volante evitino il proseguimento del testacoda? Magari il problema è connesso al telaio e non alla striscia negativa di musi puntati verso le barriere, o semplicemente esiste un enorme criticità d’assetto che Vettel e i suoi ingegneri non riescono a risolvere. In ogni caso, Sebastian per primo si renderà conto che così non può continuare, che non può essere perennemente la vettura la causa di prestazioni tanto distanti dal compagno di squadra.


Il tedesco sembra perso, spaesato, in balia degli eventi. Instillare il dubbio, come fatto sabato, che possano esistere differenze (volute o meno) tra la sua monoposto e quella di Leclerc aiuta? La soluzione dei mali può davvero risiedere nell'accanirsi su una strategia forse non perfetta, ma almeno comprensibile nell'economia tanto della sua gara quanto di quella della Scuderia? Al di là dell’eventuale preoccupazione del muretto nell’impartire un ordine di squadra ai suoi danni (al momento del primo stop Leclerc lo stava raggiungendo), che comunque avrebbe avuto il sapore di un umiliazione, Vettel non aveva oggettivamente possibilità di allungare lo stint rientrando davanti a Kvyat e Sainz. Non ne aveva il ritmo, e tra l’altro è realistico sperare di non ritrovarsi nel traffico durante una rimonta dal fondo? Sentirsi circondato da ombre non lo aiuterà, almeno quanto non aiuta la Ferrari andare a punti con una monoposto sola ad ogni Gran Premio. Perché Sebastian può aver deciso di combattere una guerriglia continua a mezzo stampa e via radio, è del tutto legittimato a farlo dato il deterioramento del rapporto, ma a Maranello dubitiamo fortemente si divertano a riconquistare il terzo posto tra i Costruttori solo grazie ai pasticci Racing Point.


Immerso nella gloria di una vittoria del tutto imprevista, ma ampiamente meritata, è invece Max Verstappen ad assomigliare più di chiunque altro a Schumacher. Lui, così lontano dalla Ferrari più volte punzecchiata in passato, ricorda in maniera sconcertante il Kaiser di fine anni ’90. Non sarà di certo la prima volta che sentite parlare di un paragone del genere, ma è un paragone che calza. Perfettamente, verrebbe da aggiungere. Si va oltre il passo gara, il giro in qualifica o l’aggressività nei duelli. Max ricorda lo Schumacher del 1997 e del 1998 nell’inscalfibile intensità che dimostra in pista, nella volontà testarda di non arrendersi allo strapotere della monoposto dominante. La prima porzione di corsa sulle Hard ha portato alla mente immagini dei giri a ritmo di qualifica che, periodicamente, Ross Brawn richiedeva al tedesco per rendere vincenti strategie al limite del concepibile; il sorpasso su Bottas ha mostrato la calma che contraddistingue l’olandese in qualunque situazione delicata, uno stato d’animo opposto a quanto mostrato nei primi anni in Red Bull. Nessuna fretta di raggiungere risultati che, senza la rottura in Austria, potevano davvero riaprire un campionato sulla carta senza storia. Esattamente come accadde a fine primavera 1998.


Nessun fraintendimento: la Mercedes è nettamente superiore alla Red Bull, e con tutta probabilità alla vittoria di Silverstone seguiranno, nel migliore dei casi, solo trionfi sporadici per Verstappen. Se però nella calura di questa domenica estiva all’orizzonte sembra possibile scorgere un briciolo d’incertezza riguardo l’iride, è solo grazie a Max.


Senza sognarlo, sempre più sulle orme di Schumi.

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