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  • Immagine del redattoreLuca Ruocco

Brancolare nel Rosso



Sono pochi gli episodi memorabili della stagione 2020.

Il calendario accorciato e compresso nella seconda metà dell’anno si combinò al dominio targato Mercedes per scolpire un’incessante sequela di noiosissimi trionfi: oggi Hamilton vince di dieci secondi, domani di venti e dopodomani sorpassando Bottas al via.

Gli unici sussulti arrivavano dagli imprevisti, dai colpi di scena. Il cedimento delle Pirelli a Silverstone fu uno di questi, dato che obbligò Lewis a percorrere due terzi dell’ultimo giro su tre ruote. Nel surreale silenzio che circondava l’ex aerodromo privo di tifosi, a risuonare più forte dell’urlo dei motori era la voce di Peter Bonnington, detto Bono, che scandiva alla radio il residuo vantaggio dell’inglese su Verstappen. 20 secondi. 18 secondi. 15 secondi…

Solo mentre Hamilton approcciava le ultime curve di un Gran Premio improvvisamente sofferto, il tono dell’ingegnere tradì una minima concitazione. Per il resto, una freddezza glaciale dentro una situazione al di fuori di qualunque scenario immaginato o vissuto in precedenza.


Cosa potrà mai avere a che fare Silverstone 2020 con la separazione tra Binotto e la Ferrari?


Nulla, direte voi. Niente di più sbagliato, risponderemmo noi di Col Cuore in Gola.


Peter Bonnington approdò a Brackley, la cittadina inglese che ospita il quartier generale della Mercedes, a metà degli anni 2000, quando la scuderia aveva tutt’altra proprietà e correva sotto le insegne della BAR-Honda. Inizialmente affiancò Andrew Shovlin, oggi a capo degli ingegneri di pista della Stella a Tre Punte; con loro lavoravano James Vowles, direttore delle strategie, Ron Meadows – direttore sportivo – e un nutrito contingente che solo un decennio dopo avrebbe dominato la Formula Uno in lungo e in largo.

Certo, la strada per raggiungere il successo fu lastricata di innesti e perfezionamenti, molti dei quali provenienti da Maranello (su tutti, Aldo Costa). Senza la trovata di un ingegnere giapponese capace di scovare una falla nei regolamenti, la miracolosa (ri)nascita della BrawnGP dalle ceneri Honda non avrebbe avuto luogo. E con lei, molto probabilmente, si sarebbero perse le carriere di questi brillanti ingegneri, con la Mercedes che non avrebbe mai rilevato un team improvvisamente divenuto vincente.


Esatto, improvvisamente. Perché dopo il picco del 2004, contrassegnato da un distante secondo posto in classifica costruttori, la BAR-Honda colò a picco, fino ai disastri delle stagioni 2007-2008.


Un gruppo di persone nel quale nessuno avrebbe creduto, responsabili di una monoposto incapace di superare il Q1 nel migliore dei casi, si trasformò nella pietra d’angolo della squadra più vincente di tutti i tempi, diventandone un nucleo sostanzialmente inscalfibile.


Nelle dieci stagioni che separarono il 2008 dal 2016, l’annata forse migliore del ciclo ibrido Mercedes, cambiò qualcosa? Bonnington, Shovlin & Co. seguirono corsi di formazione personale venduti a prezzo stracciato durante il Black Friday?


Certo che no. Banalmente, ricevettero la fiducia necessaria da una serie di personaggi illuminati – Brawn, Lauda, Wolff -, vennero affiancati da tecnici di prim’ordine nei ruoli dove la squadra peccava rispetto alla concorrenza e ottennero un budget adeguato.


Vi pare di percepire una somiglianza con le notizie provenienti in questi giorni da Maranello?


Figurarsi. Non a caso, la Mercedes sta chiudendo in questo momento un ciclo di vittorie senza precedenti – e non è detto che il 2023 non riservi un’ultima fiammata -, mentre la Ferrari si avvia con il vento in poppa verso il ventennio di digiuni iridati.


Non pretendiamo certo che una constatazione del genere basti a spiegare l’intera gamma di motivi alla base delle ormai perpetue sconfitte Rosse.


Allo stesso tempo, allontanandosi per un’istante dalla comune affezione verso il Cavallino Rampante, ha del ridicolo assistere all’ennesima rivoluzione ai vertici di una Scuderia che, in questa stagione, ha collezionato quattro vittorie e dodici pole position - dopo un biennio nel quale i conteggi si fermavano rispettivamente a zero e due -.


Esistono miriadi di colpe attribuibili a Binotto. Ci torneremo tra un attimo. Ma non si può fuggire dal nocciolo della questione: ad una squadra in crescita, che necessitava di diversi piccoli correttivi, si sono tolte le fondamenta. Punto. Poi, che queste fondamenta fossero capaci in futuro di portare al successo, non lo sapremo mai. C’è chi pensa di sì, c’è chi pensa di no.


Ormai, però, il progetto-Binotto era giunto quasi a completa maturazione e meritava l’opportunità di giocarsi un titolo nelle migliori condizioni possibiliossia, dopo un anno di ritorno alla lotta per la vittoria, forti degli insegnamenti del caso, e soprattutto con un motore affidabile -.


Si fossero ripetute le magagne di questa stagione nel 2023, allora sì che in quel momento sarebbe divenuta giustificabile l’ennesima rivoluzione a Maranello.


Rendiamoci conto di un dettaglio per nulla trascurabile: le porti girevoli emiliane, riattivate per la felicità di molti, vedranno tra poco transitare in uscita Mattia Binotto. E in entrata? In entrata non c’è nessuno. Solo Frédéric Vasseur, un nome rispettabile ma di certo fuori dai radar delle grandi squadre. Altrimenti l’Audi avrebbe allargato i cordoni della borsa perché il francese rimanesse in Sauber, destinata a diventare la squadra ufficiale dei tedeschi. Al contrario, Vasseur giungerà a Maranello sostanzialmente da disoccupato, dopo i rifiuti di personaggi di spicco come Seidl, Horner e chissà, magari anche Toto Wolff.


In fondo chi vorrebbe mai rivivere l’esperienza di Binotto alla Rossa?


Come da prassi, in questi giorni emergono puntuali racconti più o meno dettagliati del perché la gestione Binotto in Ferrari abbia fallito. Alberto Antonini – responsabile della comunicazione silurato proprio quando Binotto, nel 2019, sostituì Arrivabene – ha scritto un memorabile resoconto della figura dell’ingegnere italo-svizzero su Formula Passion, dando l’impressione di non dispiacersi per nulla nel sottolineare le spigolosità di un carattere dipinto sostanzialmente come intrattabile, malfidente e maniaco del controllo.


Leo Turrini ha raccontato del soprannome il Faraone, delle accuse di arrivismo e dei rapporti al minimo con Elkann, Vigna e Leclerc. Nulla di nuovo, però. Proprio sul blog del noto giornalista emiliano, qualche anno fa, un misterioso fuoriuscito da Maranello – ora in Germania – ottenne la pubblicazione integrale di una novella allegorica nella quale immaginava un dialogo in paradiso tra Enzo Ferrari e Sergio Marchionne. Il primo, preoccupato per l’annus horribilis 2020, chiedeva delucidazioni al secondo, il quale ammetteva la sequela di errori gestionali ed epurazioni tutti suggeriti da una figura mai citata ma impossibile da confondere.


Insomma, se addirittura circolavano in rete le rimostranze dei ‘cacciati’, la decisione di Elkann di confermare il progetto di Marchionne, e dare il timone della Rossa a Binotto nel 2019, diventa priva di qualsivoglia scusante. Dell’arrivismo di Binotto, delle epurazioni di Binotto, del circondarsi solamente di un gruppo di persone fidatissime e, infine, della volontà di rimanere Team Principal e in contomporanea Direttore Tecnico, si sapeva fin da subito. E se non se ne era a conoscenza, allora si era negligenti.


Potremmo aggiungere all’equazione il protagonismo mediatico, unito ad una sostanziale incapacità comunicativa, ma trattasi di ricetta che fin qui ha giovato solamente a Maurizio Crozza.


Diventa importante sottolineare come, pur con tutte le criticità mostrate nel 2022, un progetto manageriale mai intaccato dal 2019 in poi venga rivoluzionato proprio nel momento in cui, almeno da un punto di vista puramente tecnico, sembra essere in rampa di lancio.


È questa la dinamica complessa da comprendere nella deprimente vicenda. Perché si tratta di capire, in fondo.


Entrando nel novero del parere personale, noi di Col Cuore in Gola imputiamo a Binotto due responsabilità significative - e a tratti gravi -.


La prima riguarda il non aver saputo o voluto delegare pienamente le responsabilità tecniche ad uno o più collaboratori; il risultato, nefasto, è stata una sottrazione delle energie da destinare agli aspetti politici del ruolo, il che – fermandoci all’esempio più recente – ha prodotto sconfitte in sede regolamentare quali la famigerata TD-039.


La seconda pone invece l’accento sulla gestione dei piloti. Analizzando le difficoltà autunnali della F1-75 (qui), abbiamo sottolineato senza mezzi termini come, a nostro parere, il titolo 2022 non fosse mai stato un vero obiettivo in Ferrari. Il deficit d’affidabilità rappresentava sin dall’inverno uno scoglio troppo grande da superare. Il brillante avvio di stagione, però, avrebbe dovuto suggerire a Binotto una parziale correzione della rotta.


Ponendo Leclerc quale indiscussa prima guida, il campionato non sarebbe arrivato comunque. La squadra, però, avrebbe dimostrato una coerente reazione agli eventi, grazie a un onorevole tentativo di rimanere in corsa per il titolo il più possibile. La decisione avrebbe gratificato i tifosi, la dirigenza e, in particolar modo, avrebbe reso molto più immediate alcune scelte strategiche rivelatesi disastrose.


Viene da chiedersi, allora, se una dirigenza attenta alle dinamiche di pista avrebbe potuto imporsi su Binotto, spingendolo all’adottare qualche correttivo in vista dell’esame finale nel 2023.


Probabilmente sì. Dubitiamo che un eventuale ordine di focalizzarsi sulle chance mondiali di Leclerc sin dai primi mesi della prossima stagione, a meno di un clamoroso cambio di passo di Sainz, sarebbe finito disatteso.


Evidentemente, le simpatie o le convinzioni personali hanno reso impossibile l’intesa.


Elkann, che un tempo scivolava su una buccia di banana parlando di giri veloci a Baku, oggi è un Presidente mediaticamente distante ma alquanto interessato alla dimensione corse del Cavallino Rampante. Altrimenti nel 2021 non avrebbe seguito la notte della 24 di Le Mans nel box di AF Corse – un luogo, ci permettiamo, molto lontano dal clamore mediatico della Formula Uno, e forse più vicino ad un carattere riservato –; soprattutto, non avrebbe approvato lo stupendo progetto della 499P.


Risulta complesso immaginare, poi, che il potentissimo management di Leclerc non abbia avuto un peso nella vicenda. Il che non significa tacciare Charles della volontà di muovere i fili o di esplicitare pretese travestite da ultimatum.


Piuttosto, complice lo stretto rapporto che lega Charles a Elkann – arrivare in autodromo assieme ad Austin è un segnale mediatico inequivocabile -, non è assurdo ipotizzare che di fronte all’idea di un cambio al vertice della Gestione Sportiva, Leclerc & Co. non abbiano mosso mari e monti per difendere Binotto. Consapevoli, si immagina, che un nome come Vasseur – o chi per esso, dato che a scegliere sarà Elkann – con ogni probabilità avrà mandato di chiarire le gerarchie appena la situazione di campionato lo consenta, come accadeva con Schumacher.


Nulla di curioso o imperdonabile, anzi. Il peso politico di un campionissimo è un concetto talmente ovvio che sfiora l’ottuso immaginare non venga esercitato per ottenere un vantaggio competitivo. Esista o meno un legame affettivo con l’ambiente (come vale per la Ferrari e Leclerc).


In definitiva, le difficoltà gestionali della stagione 2022 sembrano aver innescato un confronto interno che, evidentemente, in Ferrari ribolliva da tempo.


Solo il 2023 e il profilo dei sostituti di Binotto – notare il plurale, dato che servirà anche un Direttore Tecnico – daranno dei responsi riguardo la scelta di strappare.


La sensazione che trasmette la vicenda, purtroppo, lascia però dell’amaro in bocca.


Perché l’ennesima rivoluzione di un progetto globalmente in crescita, operata senza dei sostituti di peso a portata di mano e innescata in un momento topico per la vettura che nascerà a febbraio, avrà immancabilmente delle ripercussioni sulla competitività della Scuderia. A breve, medio e lungo termine.


Auguriamoci siano tutte positive. Altrimenti, l’immagine di una nave in balia della tempesta diverrà pura e semplice realtà.


E la Ferrari continuerà a brancolare. Nel Rosso.

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