Posso anche capirlo. In fondo è stato un mondiale difficile, frustrante, senza la minima storia se non per la conquista di singoli successi di tappa. Seguire corse dominate in maniera talmente schiacciante da annichilire gli avversari, da ridicolizzarli con giri più veloci conquistati con coperture che su altre vetture sarebbero alla frutta, alla fine può far perdere la pazienza. Cominciano così gli attacchi, i giudizi, le prese in giro. Il problema è che ogni tanto si raggiunge il limite, e diventa necessario provare a dare una visione diversa ai problemi che hanno afflitto la Ferrari in questa stagione. Magari senza farlo nel castrante spazio di un Tweet.
Quanto ha scatenato la scrittura di questo pezzo non è stata tanto la gara di Abu Dhabi. Sinceramente non era molto complesso aspettarsi difficoltà da parte della Ferrari. Magari la rossa ha deluso oltre il preventivato, ma realisticamente le uniche chance di vittoria risiedevano nel conquistare la prima fila in qualifica e poi provare a gestire la corsa bloccando gli avversari. Al di là dell’imbarazzante performance nel terzo settore durante l’intero weekend, che ha precluso la conquista della pole stessa, vista la siderale distanza nel ritmo gara non sarebbe bastata neanche un’eventualità del genere. È successo a Silverstone, al Paul Ricard ed in altre corse. Nulla di nuovo. Quanto invece mi ha profondamente infastidito e lasciato di sasso sono le continue, imperterrite critiche piovute su Binotto e la Scuderia sin dal venerdì. Sin da quando il Team Principal della Ferrari ha risposto a chi gli chiedeva di dare un voto alla stagione di squadra e piloti con le seguenti votazioni: 8 al team, 6,5/7 ai piloti. Apriti cielo, i social network sono esplosi, per poi rincarare la dose il giorno dopo, in seguito al mancato ultimo tentativo di Leclerc, con le rosse mandate in pista troppo tardi nel finale del Q3.
Partiamo dalla perniciosa acrimonia riversata su Mattia Binotto. In quanti si ricordano l’esultanza popolare, la soddisfazione collettiva che permeava l’aria dei primi di gennaio 2019, quando l’ingegnere emiliano fu annunciato come sostituto dell’allontanato Maurizio Arrivabene? Proprio lui, quello antipatico, quello che si era permesso di criticare il muretto dopo la scellerata scelta di affrontare il Q3 a Suzuka sulle intermedie quando la pista era ancora asciutta, invocando la mancanza di un ‘pistaiolo’ in squadra. Critica ineccepibile ma probabilmente inopportuna, questo non lo si nega. I panni si sporchi si lavano in famiglia. Quando però lo fa Binotto, non va bene. Al di là della questione del voto, a riguardo della quale mi permetto di sottolineare un concetto secondo me lineare e logico: la massima figura interna di una scuderia deve difendere prima di tutto chi, nel team stesso, non ha i mezzi per difendersi da solo. Perché se da un lato basterebbe leggere le parole di Binotto, per capire che quell’otto non era un’esaltazione di chi ha progettato la monoposto, bensì un plauso a come la scuderia non si sia disunita nelle difficoltà ed abbia saputo reagire (altro dato di fatto visto l’ottimo mese di settembre), dal mio punto di vista è perfettamente comprensibile il non voler affondare il coltello nella piaga di ingegneri, meccanici e personale in pista. Vi sembra abbiano mai avuto la possibilità di spiegare il perché dei propri errori, possibilità che viene fornita dieci minuti dopo la corsa ai piloti? Esattamente, secondo quale criterio oggi Binotto avrebbe dovuto criticare pubblicamente i meccanici responsabili del pit-stop lento di Vettel, se non per addossargli la colpa, agli occhi di una nazione intera, di una corsa pessima della quale in realtà hanno pochissime responsabilità, come pochissime ne ha Sebastian? Fosse almeno incoerente: andate a rileggere il suo commento riguardo la corsa del numero 5 a Monza. Altro che non difendere i propri piloti e farlo sempre con la squadra.
Il continuo, incessante cercare un colpevole in ogni singolo risvolto negativo di un fine settimana della rossa è un atteggiamento tossico, sbagliato, controproducente. In particolare se ciò proviene da chi si professa tifoso Ferrari. È un nauseabondo lamento continuo, un brusio di fondo che inevitabilmente non sfuggirà agli uomini in rosso. Ogni strategia è analizzata al microscopio, ed inevitabilmente se ne trova una alternativa che avrebbe avuto esiti migliori. Gestisci i piloti, non gestire i piloti; cambia le gomme, non cambiare le gomme; differenzia le gomme di partenza, no aspetta non farlo; critica la scuderia, non sempre i piloti, però i panni sporchi vanno lavati in famiglia, licenzia Vettel!
Il vero, unico, inconfutabile problema della Ferrari nella stagione 2019 è la SF90. Il resto sono chiacchiere. Se si arriva al colmo di doversi giocare una prima fila passando esattamente per ultimi prima della bandiera a scacchi in Q3, per poter recuperare quei centesimi che dalla vettura si sa non arriveranno, la situazione è tragica. I giochetti di Toto Wolff durante i test, tanto spietati quanto efficaci, sono stati devastanti come un giro monstre di Hamilton in qualifica: l’opinione pubblica, e forse non solo quella, non si è accorta del bluff Mercedes fino a ben dopo Melbourne. Poi era troppo tardi, in particolare per la Ferrari. La quale è stata ingannata da un progetto sbagliato, i cui difetti sono rimasti mascherati a causa delle temperature invernali di Barcellona, salvo poi rivelarsi in tutta la loro tragicità nelle prime corse della stagione. Evidentemente, a causa di un’interpretazione sbagliata delle Pirelli 2019 o meno, si è sottovalutato il livello ottimale di carico aerodinamico richiesto dal nuovo regolamento. Si è data eccessiva importanza al qualificarsi bene, punto debole che risale allo sciagurato finale della stagione 2017, pensando poi di poter gestire corse quasi sempre a pit-stop singolo. L’idea si è rivelata sbagliata, mentre gli avversari hanno sfornato un capolavoro, il che avrebbe tra l’altro reso comunque ostica la sfida anche a parità di concetto (evitiamo di entrare nel discorso dei mancati meriti riconosciuti a Mercedes in Italia, perché lì si scade nel ridicolo, è solo colpa della Ferrari se qualcuno va più forte).
Potremmo aprire una discussione sulla filosofia progettuale del 2017, su quella speciale SF70H che tanto aveva illuso assieme a Vettel, sul catastrofico weekend di Monza ed il successivo autunno che, col senno di poi, invitarono i tecnici rossi a cercare più velocità sul dritto, più efficienza, migliori risultati in qualifica. Il tutto con le conseguenze che abbiamo visto quest’anno. Non lo facciamo perché dietro a quello stesso discorso se ne cela un altro, ben più importante e sottovalutato da tutti.
La moltitudine di errori commessi dalla squadra in pista, dagli strateghi (che di ottime mosse, come le Hard a Monza, ne hanno anche messe a segno) e dai piloti ha un solo comune denominatore: il voler andare oltre le prestazioni di una vettura tutt'altro che vincente, figlia di un progetto saltuariamente valido ma tutto sommato errato. Del quale non saranno contenti neanche a Maranello, statene certi.
Quanto però non viene compreso, ora come nel 2017, è che in F1 per vincere, oltre a faraonici investimenti, è imprescindibile una cosa: la stabilità. In Ferrari è mancata, con gli addii di Resta (ora tornato), Sassi e tanti altri. Ai tecnici della rossa va data fiducia, bisogna avere pazienza. Troveranno la quadra. Così come i piloti faranno meno errori, ed ancora più magie, quando avranno a disposizione una vettura stabile e veloce in curva, parsimoniosa nei consumi ed affidabile in tutte le sue componenti. Aspettarsi prestazioni non conseguibili, salvo poi accanirsi nella spasmodica ricerca di responsabili delle sconfitte, è folle ed inconcludente. Se manca una presidenza forte mediaticamente, se Binotto ci prova ma più di tanto non può fare, dovrebbe essere chiunque vuole bene alla Ferrari a creare una bolla intorno a Maranello. Per battere questa Mercedes serve una monoposto perfetta: imparando dai propri errori si può provare ad ottenerla, intanto si eviti l’accanimento continuo ed ingiusto. In Ferrari nessuno si diverte a perdere. Lasciateli lavorare in pace, e magari la vettura 2020 non sarà l’unico, vero problema dell’ennesima stagione dominata da qualcun altro.
Ogni sport, compresi quelli definiti individuali, di fatto sono di squadra.
In qualche raro caso si imbroccano una serie di circostanze favorevoli, società, progetto, piloti, meccanici, che portano a conquiste impensabili, vedi Button.
Più spesso certe società riescono a mantenere per qualche anno livelli altissimi ed in questo caso parliamo di cicli.
Ciò che in F1 è da sempre stato sopra ogni cosa è la SF, capace anche nei momenti più bui, con la forte perseveranza provinciale che la contraddistingue, di continuare ad essere la squadra di riferimento.
Vincere un mondiale non significa essere arrivati primi ma aver battuto il mito Ferrari.
Ad maiora SF!
Gianni