Il 9 luglio 1958 un articolo pubblicato sull’Osservatore Romano definisce Enzo Ferrari ‘Saturno Industriale’. La morte di Luigi Musso, avvenuta il giorno prima sul circuito di Reims in occasione del Gran Premio di Francia, ha definitivamente scatenato le critiche dei detrattori delle corse automobilistiche, che vedono nel Drake il massimo esponente di un movimento sportivo privo di rispetto verso la vita umana. Le continue morti dei piloti, troppo spesso accompagnate da quelle degli spettatori assiepati ai bordi di piste pericolosissime, alimentano la narrativa di una parte del Paese ancora sconvolta dagli orrori della Guerra e ben lontana dal comprendere l’intento e la natura delle corse. Ferrari viene dipinto – a torto – come del tutto disinteressato alla sicurezza dei propri piloti, desideroso esclusivamente di portare al trionfo il Cavallino Rampante sui tracciati di mezza Europa, anche a scapito della vita dei propri dipendenti più preziosi.
Se questo è l’esempio più lampante di un sentimento duraturo nel tempo, che feriva intimamente Ferrari, è indubbio che al contempo anche tra gli esperti di motorismo sportivo serpeggiasse una credenza molto diffusa: il Drake non disdegnava la pratica di mettere uno contro l’altro i propri piloti. Creare gelosie, reciproche diffidenze, ma soprattutto un’irrefrenabile volontà di superare il proprio compagno di squadra, non solo in pista ma anche nelle presunte preferenze del Drake stesso: era questa la strategia, secondo diversi addetti ai lavori, mediante la quale Ferrari riusciva ad assicurarsi il massimo impegno dei propri piloti.
Perché in fondo, ad Enzo, interessava una cosa sola. A tagliare il traguardo per prima doveva essere una vettura uscita dagli stabilimenti di Maranello. Il resto, compreso il pilota vincitore, era un dettaglio. In fondo chi guidava le sue vetture era né più né meno di un dipendete, semplicemente meglio stipendiato di tutti gli altri. Seppur parzialmente errata e riduttiva, una visione del genere spiega almeno in parte diversi eventi chiave della storia del rapporto tra Enzo Ferrari e i suoi piloti, eventi a volte tragici. Da Castellotti perito mentre inseguiva il record del tracciato di Modena sotto gli occhi del Drake, fino a Musso volato nei campi mentre provava, per la prima volta in gara, ad affrontare il Calvaire in pieno per riprendere il proprio compagno di squadra Hawthorn. Dalla burrascosa fine del rapporto con Lauda, irrimediabilmente segnato dalla prontezza con la quale Enzo ordinò di cercarne un sostituto dopo il rogo del ‘Ring, alla coltellata – poi rimpianta – delle parole pronunciate a Gilles Villeneuve dopo il tradimento di Pironi a Imola: ‘in fondo è stata una doppietta Ferrari’.
Per quanto ovviamente priva dell’unicità dei gesti del fondatore, la politica di porre gli interessi della Scuderia davanti a qualunque ambizione personale prosegue ancora oggi, ben oltre la morte del Drake – fortunatamente, verrebbe da aggiungere -. Proseguì addirittura sia durante (vedi incomprensibili ordini di squadra a Barrichello) che alla fine dell’era Schumacher, quando un non del tutto convinto Michael fu molto, molto, molto gentilmente accompagnato al ritiro. Si era compresa la necessità di aprire un ciclo che andasse oltre la figura del Kaiser, e senza un cambio regolamentare epocale e con un pizzico di fiducia in più verso Raikkonen l’impresa avrebbe avuto ancora maggiore successo. L’approdo di Alonso, avvenuto nonostante parole ben peggiori di quelle pronunciate da Verstappen lo scorso autunno, fu ulteriore esempio della capacità di andare oltre rancori passati per il bene della Rossa, e per poco non portò a conquistare titoli iridati pur disponendo della terza vettura più veloce in griglia. L’addio burrascoso dell’asturiano seguì esattamente la stessa logica.
Arriviamo così alle polemiche dell’ultima settimana, durante la quale sul web si è scatenata un’ondata di commenti negativi verso la scelta della Ferrari di non rinnovare il contratto a Sebastian Vettel. Le illazioni, esattamente come accaduto con Alonso, non hanno avuto sosta: qualcuno sostiene sia stato il tedesco, spazientito dal dialogo Ferrari-Sainz, a rompere i cocci decidendo di arrestare qualunque conversazione ed annunciare al mondo intero, mediante la stampa tedesca, la fine del rapporto. Altri arrivano a paventare l’ipotesi che John Elkann, deluso dalla minaccia di Vettel di tagliarsi lo stipendio 2020 solo in caso di offerta biennale, abbia ordinato di accelerare la firma del nuovo pilota, da tempo individuato da Binotto in Sainz. Ovunque si trovi la verità – probabilmente, come da proverbio, nel mezzo – è forse inevitabile che dopo una storia tanto emozionante, dopo obiettivi così dolorosamente mancati, il dividersi delle strade esponga crepe fino alla settimana scorsa nascoste.
La scelta di Binotto, anche a costo di qualche bugia alla presentazione della SF1000 (quale capo squadra motiva il proprio pilota, prima ancora dei primi test, mettendone in dubbio la permanenza per la stagione successiva?), rientra nel solco delle decisioni prese a favore della Scuderia. Vettel era sì forte di un pacchetto di esperienza e talento del tutto irraggiungibile per Sainz, ma è plausibile che nella Formula 1 moderna ciò non sia imprescindibile per un corretto sviluppo della vettura, e che in Ferrari abbiano accettato la sfida puntando su una coppia forte, dinamica e molto più esperta di quanto nel 2020 siano Verstappen e Albon. Eppure nessuno mette in dubbio le possibilità della Red Bull RB16 di giocarsi il mondiale, anzi sembra essere molto più probabile ci riesca lei piuttosto che la SF1000.
La Ferrari non divora i propri piloti, come in realtà non accadeva nemmeno ai tempi di Enzo. Molto più banalmente, sa capire quando è tempo di inaugurare un nuovo ciclo, di donare a potenziali campioni la possibilità – sempre, irrimediabilmente remota – di rendere gloriosa un’avventura che a prescindere ne impreziosisce la carriera.
Semmai, a volte, sono i piloti a divorare loro stessi.
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