Romain Grosjean era lì dentro. In quella palla di fuoco, quel rimasuglio di metà monoposto infilatosi nelle traversine di un guard-rail.
Fuoco e barriere d’acciaio. Le due cause principali della morte di decine di piloti, in tutte le categorie, a cavallo degli anni ’70. Da Cevert a Williamson, da Piers Courage a Jo Schlesser, per limitarci alla massima serie. Ragazzi, mariti, amici, padri e fratelli morti bruciati o decapitati. Raggela il sangue leggerlo, vero? Un momento prima si sta guidando una vettura di Formula Uno, il sogno di miriadi di bambini in tutto il mondo, la frazione di secondo dopo il proprio corpo giace a terra esanime.
Perché a Romain Grosjean sia toccato un destino diverso non lo sapremo mai. Per carità, i progressi in materia di sicurezza hanno salvato il francese. Senza una scocca tanto resistente, l’impatto lo avrebbe quanto meno condotto allo svenimento; senza l’Halo il guard-rail non gli avrebbe lasciato scampo(è ora di chiedere scusa a Jean Todt, la FIA e chiunque ne abbia imposto – nonostante le resistenze enormi – l’introduzione?). Quanti piccoli dettagli, però, avrebbero potuto condurre a una situazione completamente diversa?
Chi ha il dono della Fede si spiegherà l’accaduto in un certo modo, chi è fatalista in un altro. Passato qualche giorno spunteranno senza dubbio i cinici a raccontare – chissà secondo quale esperienza – che in quei momenti, vista l’adrenalina in circolo, il corpo si muove da solo. Vince l’istinto. Qualche stoico romantico, per fortuna, continuerà invece a credere che dietro il colpo di reni di Romain ci siano stati, semplicemente, i tre bambini che lo aspettano a casa.
Non è questo il punto, però. Non lo sono neanche le sacrosante indagini che, sin da stasera, le autorità sportive dovranno condurre riguardo l’accaduto. Cosa ha appiccato l’incendio, ben più sorprendente del distacco della cellula di sopravvivenza dal gruppo motore, previsto in casi del genere? Come si potrà evitare che barriere metalliche inevitabilmente vicine alla pista – basti pensare a Montecarlo – possano letteralmente aprirsi in caso di impatto tanto violento? A tempo debito riceveremo risposte e verranno implementate le contromisure necessarie, la FIA difficilmente lesina attenzioni riguardo la sicurezza. Soprattutto nella Formula Uno moderna, soprattutto dopo incidenti gravi.
A mente fredda, lontani dall’emozione dell’incidente e dal successivo andamento della corsa, dovremmo concentrarci – tutti – su ben altro.
Recuperare giudizi rispettosi, accorati, logici e comprensivi di situazioni e vicende personali sarebbe il minimo. Concentrandosi sui piloti, ovviamente, ma tenendo a mente chiunque lavori nel Circus – dal Team Principal al direttore di corsa, dal giornalista al commissario di percorso -, perché nessuno è esente dalla frenesia che attraversa una gara, un fine settimana o un’intera stagione di Formula Uno. Il passo successivo potrebbe vederci, nessuno escluso, finalmente volenterosi di abbandonare partigianerie, posizioni inamovibili per partito preso e illogiche ritrosie ad ammettere – almeno – la dignità della posizione altrui. Sembrerà eccessivo, ma ciò accade anche nel ginepraio che circonda, nelle piazze virtuali, quello che in fondo è un semplice gioco.
Se da un incidente del genere non trarremo conclusioni che vadano oltre la scarna analisi dell’accaduto, lo spavento per le condizioni di Grosjean rimarrà vano. Ciò che poteva facilmente tramutarsi in sacrificio rimarrebbe - colpevolmente – responsabile di un respiro trattenuto, o un battito mancato, ma nulla di più. Senza arrivare ad immaginare cosa abbia provato Marion Grosjean davanti alla televisione, esercizio al di là del concepibile, ognuno di noi ricorderà per lungo tempo il pensiero transitato nella propria testa durante quei minuti infiniti.
Non serve smettere improvvisamente di criticare un pilota responsabile di una prestazione sottotono. Non occorre controllarsi eccessivamente o sopprimere il proprio tifo. Basterebbe ricordare la palla di fuoco che avvolgeva la Haas numero 8, la prossima volta che si è travolti dall’impulso di bollare i piloti di oggi come immuni al rischio, le piste come prive di pericoli o le monoposto come troppo votate alla sicurezza. L’immagine della tuta bruciacchiata aiuterebbe terribilmente quando si critica Hamilton per la contrarietà al tetto sui salari o Stroll perché, senza alcuna responsabilità, è nato in una famiglia capace di sostenere il suo sogno. Il prossimo testacoda di Vettel, magari, giudichiamolo tenendo a mente la visiera annerita di Romain o le braccia tese di Ian Roberts.
Infine, la prossima volta che accendiamo la televisione, varchiamo la soglia di un autodromo o seguiamo le azioni di un pilota dalla Camera Car, non azzardiamoci a dimenticare, neanche per un istante, la ragione principale per cui quel ragazzo stringe un volante tra le mani sfidando la Morte a trecento chilometri orari.
Non sono i soldi, non è la follia, non è la passione o il gusto per la sfida. Queste arrivano dopo. Prima di tutto, un pilota, guida per regalare emozioni. Ad ognuno di noi.
Komentarze