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  • Immagine del redattoreLuca Ruocco

Tra Garagisti ed Accademie


Cristiano Barni / Shutterstock.com

Negli ultimi giorni mi è capitato di scoprire, su F1TV, la serie di documentari ‘Legends of F1’. Spulciando tra i nomi dei grandi campioni intervistati, ho trovato quelli di John Surtees e Sir Jackie Stewart. Non sono nomi del tutto sconosciuti, anche al grande pubblico. Il primo rimane l’unico pilota nella storia del motorismo ad aver conquistato l’iride sia nel motomondiale (sette volte), sia in F1 (nel 1964 con la Ferrari 158). Stewart è invece un volto televisivo ancora adesso, frequenta diverse corse ad ogni stagione ed è ambasciatore di vari marchi legati al Circus iridato. Quasi non ci si ricorda dei tre mondiali conquistati dallo scozzese a cavallo degli anni Settanta, prima con la Matra gestita da Ken Tyrrell, poi con le vetture dello stesso ormai diventato costruttore. I racconti dei due campioni sono interessantissimi, pieni di aneddoti che, se anche non completamente inediti, raccontati dai protagonisti acquistano un fascino maggiore.


Due riferimenti mi hanno colpito più di altri, più vicini di quanto si possa pensare alla F1 di oggi. Raccontando della trasformazione della scuderia di Ken Tyrrell in costruttrice vera e propria di monoposto, Stewart riporta il termine allora usato da Enzo Ferrari per descrivere chi, con pochi fondi, un motore Cosworth DFV ed un cambio Hewland, dal 1970 all’avvento dell’effetto suolo ebbe la possibilità di costruire in poco tempo una vettura della massima formula. I Garagisti. Pronunciato perfettamente da Sir Jackie. Chissà, una volta compresa la traduzione, come la presero gli inglesi. Verrebbe da pensare non benissimo, vista l’annosa diffidenza che nutrono nei confronti della scuderia di Maranello – nella sua autobiografia, Adrian Newey ricorda come a cavallo degli anni 2000, in piena era Schumacher, nel paddock la FIA venisse soprannominata Ferrari International Aid, aiuto internazionale alla Ferrari -. Sembrerebbe una situazione così lontana, rimanda a tempi e corse completamente diversi. Il rischio sfacciato, un rapporto col pericolo che sfociava quasi in sbeffeggiamento, lo spiritico cameratesco tra i piloti, l’avventura di microscopiche scuderie che partecipavano alle prequalifiche arrivando in circuito con la monoposto trainata da utilitarie. I Garagisti, però, continuano ad esistere in fondo. Si sono solo trasformati, nella F1 multimilionaria ed ipertecnologica di oggi. Anzi, stanno aumentando con il tempo. È inevitabile ed è, permettetemi, una fortuna resistano ancora oggi. Haas, Alfa Romeo, Toro Rosso, Racing Point e Williams (anche se in forma leggermente minore), non si limitano ad acquistare da Honda, Mercedes e Ferrari l’ultra complesso sistema propulsivo ibrido attuale. La sola Williams, per esempio, produce ancora il cambio autonomamente, scelta che tra l’altro ha posto la vettura in serio ritardo rispetto alle concorrenti (la scatola non è ancora in carbonio). Le altre scuderie comprano dai top-team sia la trasmissione, sia il sistema sospensivo posteriore, profondamente integrato al gruppo cambio da diversi anni. Telaio, aerodinamica, sistemi di raffreddamento ed altri componenti rimangono invece progettati e prodotti da ogni singola scuderia, come prescritto dal regolamento perché esse siano riconosciute come costruttori e possano partecipare al campionato. Altrimenti, viene da pensare, le componenti acquistate sarebbero molte di più. Tutto ciò è corretto o va contro lo spirito della maggiore competizione automobilistica al mondo?


I Garagisti del ventunesimo secolo non solo sono la salvezza della F1 odierna, ma ne sono il futuro. Almeno parzialmente. L’interscambio di parti va incoraggiato, ed in effetti in tale direzione si è mossa la FIA con nuove regole riguardo la progettazione delle componenti, norme che saranno introdotte dal 2021 in poi. Senza queste possibilità, non avremmo nel mondiale Alfa Romeo né tantomeno, dalla prossima stagione, Aston Martin. La scuderia Haas non sarebbe probabilmente neanche nata, e la Toro Rosso STR14, forte del retrotreno Red Bull dell’anno precedente, non avrebbe conquistato due podi nella scorsa stagione. I Garagisti, quanto di più lontano da un grande Costruttore possa esistere, hanno una buona fetta di responsabilità nell’enorme successo che ebbe la F1 a partire dall’era Lauda. Il loro risorgere, auspicandone una sempre maggiore competitività, può solo essere un toccasana per l’ambiente.


Nel corso del bellissimo – ed a tratti toccante – racconto della sua vita da pilota, costruttore e papà, John Surtees non manca di raccontare il perché della nascita della fondazione da lui dedicata al figlio Henry, che perse la vita a Brands Hatch nel 2009 durante una gara di F2. Il campione inglese, durante l’intervista girata qualche anno fa, sottolinea un sempre crescente costo delle categorie minori, tendenza che non si è arrestata negli ultimi anni. Una delle idee che presenta è quella di premiare i vincitori delle varie serie propedeutiche, partendo dai kart, con accessi automatici, indipendenti dalle disponibilità economiche, al campionato successivo nella scala verso la massima formula. Sicuramente in qualche forma esiste tale possibilità oggigiorno, ma non è comune né, soprattutto, vincente. In F1, nel 2020, si arriva quasi solo se appartenenti ad un’accademia di un team, sia esso Ferrari, Red Bull, Mercedes, McLaren o Renault. Ricordando gli ultimi quindici piloti approdati alla massima serie, notiamo come un terzo giunga dal vivaio Red Bull (Sainz, Verstappen, Gasly, Hartley, Albon), tre da quello Mclaren (Magnussen, Norris e Vandoorne), due da quello Mercedes (Ocon e Russell) e due da quello Ferrari (Leclerc e Giovinazzi). Diversi di questi, anche se non tutti, sono stati comunque per lungo tempo finanziati da famiglie con buone, se non ottime, disponibilità economiche, come ad esempio Norris, anche prima di entrare a far parte di un’accademia. Stroll, Latifi ed Ericsson sono gli unici ad aver disputato mondiali di F1 senza collegamenti ai top-team: la famiglia Stroll ha comprato un’intera scuderia, mentre il canadese e lo svedese sono stati appoggiati da importanti colossi industriali. Questa lista non vuole raccontare di una F1 dove si approda solo grazie a sostanziosi appoggi economici: è falso – le accademie sono una fortuna proprio perché selezionano in buona parte in termini meritocratici – e riduttivo nei confronti dell’immenso talento che anche il pilota meno veloce in griglia possiede, dato che parliamo di ragazzi capaci di completare a ritmo sostenuto gare e qualifiche guidando vetture che la maggior parte delle persone non riuscirebbe a far muovere neanche di qualche metro. Quanto si vuole far presente, invece, si collega al fenomeno dei nuovi Garagisti: la F1 gravita ormai fermamente intorno alle poche grandi squadre presenti. La situazione è consolidata da anni, ed il mancato arrivo di scuderie giovani, che riempiano – per quanto cinico da dire – le ultime file dello schieramento, donando opportunità di guida ai giovani, ha stretto enormemente l’imbuto d’accesso alla massima serie. Le scuderie minori hanno un legame talmente stretto con le squadre di vertice che il selezionare piloti appartenenti ai vivai delle stesse diviene quasi automatico, oltre che vantaggioso, in diversi termini, per entrambe le entità. Proprio riguardo a questo fenomeno, l’incoraggiare nuovi team ad entrare nella massima serie, con formule di collaborazione sempre più spinte con le scuderie maggiori, potrebbe aumentare le possibilità per i piloti più giovani. Il tutto si potrebbe integrare ad un ampio progetto meritocratico nelle serie inferiori.


I nuovi Garagisti e le accademie sono un simbolo della F1 che evolve, cambia e si adatta ai tempi in cui vive. Giovani piloti velocissimi e supportati correttamente, assieme a scuderie maggiormente competitive, potrebbero essere la linfa vitale della F1 che verrà. Un’occasione da non sprecare.

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