Juan Pablo Montoya e la Williams FW26. Una storia, è bene ricordarlo subito, senza lieto fine, ricca di aspettative altissime mai rispettate. Simbolo malinconico di un progetto fallito. Comparsa necessaria e forzatamente secondaria nell’epopea di una delle vetture meglio riuscite della Storia. Beffarda rappresentazione di come, paradossalmente, rinunciare a soluzioni avveniristiche aiuti a ritrovare la competitività perduta. Ultimo saluto ad un sogno irrimediabilmente difettoso.
LUI, IL PILOTA
Juan Pablo Montoya ha un posto fisso nella memoria di qualunque appassionato di automobilismo sportivo dei primi anni 2000. Velocissimo, promettente ma soprattutto grintoso come pochi, il colombiano si presentò in Formula 1 stupendo solo i meno attenti. Subito vincente nelle categorie propedeutiche europee, ottenne definitivamente l’attenzione degli addetti ai lavori quando, in mancanza di opportunità nella massima serie nonostante il ruolo di collaudatore in Williams, ruppe qualunque equilibrio esistente nella Formula CART, l’Indycar del tempo. Juan Pablo conquistò sette corse nel 1998, si laureò campione nel 1999 (il più giovane nella storia della serie a 24 anni) per poi vincere la 500 miglia di Indianapolis nel 2000. A quel punto Sir Frank non poteva più farselo scappare: Montoya firmò un contratto da pilota titolare per la stagione 2001 con la Williams-BMW. La scuderia, dopo qualche anno difficile in seguito alla partenza di Newey, veniva indicata dai più come la meglio attrezzata a troncare sul nascere il dominio Ferrari-Schumacher. Non fu subito così, ma dopo un anno d’apprendistato per BMW - e per la relazione stessa tra scuderia e motorista - la fiducia cresceva in vista del 2001. Non che Juan Pablo, iper-sicuro di sé stesso, ne avesse molto bisogno: al terzo appuntamento stagionale, sulla pista di Interlagos, sorpassò con una manovra maschia e molto, molto irriverente sua maestà Michael Schumacher, involandosi verso una vittoria poi negatagli da una rottura meccanica. A quel significativo biglietto da visita seguirono, prima della stagione 2004, tre vittorie: una a Monza, nel 2001, le altre due a Montreal e Hockenheim nel 2003 (tutti circuiti velocissimi, a dimostrazione dell’incredibile potenziale del motore BMW), stagione nella quale arrivò a contendere il titolo a Schumacher sino alla penultima corsa di Indianapolis. Lasciò la Williams nel 2005 per approdare alla McLaren, compagno di squadra di Kimi Raikkonen. Seppur competitivo rispetto al finlandese, ne subì la superiorità complessiva senza mai legare completamente con Ron Dennis, fino alla clamorosa rottura di metà 2006. Da quel momento Juan Pablo salutò definitivamente la F1, concentrandosi prima su Nascar e Indycar, poi sulle gare di durata statunitensi, nelle quali compete ancora oggi. Montoya, soprattutto per la cattiveria agonistica e le qualità velocistiche, assunse l’aspetto di una cometa tra i piloti dei primi anni 2000: accecante nelle premesse, a tratti spettacolare, ma destinata ad esaurirsi senza lasciare segni concreti del proprio passaggio.
LEI, LA VETTURA
Definirla sorprendente non le rende giustizia. La Williams-BMW FW26 lasciò letteralmente sgomenti giornalisti e addetti ai lavori quando venne presentata a Valencia nel gennaio 2004. Tricheco, Walrus, Walross, Morsa: in tutte le lingue del mondo la monoposto fu accostata al buffo animale artico. Le attenzioni si concentravano tutte sul particolarissimo muso: estremamente corto e rialzato, collegato all’ala anteriore mediante due supporti ricurvi, aveva due obiettivi principali. Il più importante era aumentare la portata d’aria destinata a raggiungere la parte bassa delle fiancate per poi essere opportunamente indirizzata ad alimentare il diffusore. Secondariamente l’assenza del classico musetto prometteva più alti livelli di efficienza aerodinamica (rapporto tra carico generato e resistenza indotta), utili ad esaltare ulteriormente il lavoro della migliore unità propulsiva del lotto. Il 10 cilindri P84 sviluppato dagli uomini BMW a Monaco di Baviera puntava a mantenere la palma di miglior motore in F1 in quanto a pura potenza – mentre rispetto a guidabilità, gestione elettronica e consumi continuava a pagare rispetto al propulsore iridato di Maranello -, pur rispettando le più recenti limitazioni che vietavano l’utilizzo di più di una unità a weekend. Richiesta d’affidabilità che, nonostante faccia sorridere se confrontata a quelle odierne, in realtà pose diversi grattacapi agli ingegneri della doppia elica, brillanti nel contenere pesi e ingombri allo stesso livello della stagione 2003. La FW26 nasceva quindi rivoluzionando letteralmente i concetti base della FW25, capace di contendere il mondiale costruttori alla Ferrari fino all’appuntamento finale di Suzuka. Insomma, il progetto firmato da Antonia Terzi prometteva bene, basandosi su un’intuizione – il muso alto – che avrebbe letteralmente spopolato dal 2009 al 2013, quando ripresa da Adrian Newey condizionò il design di qualunque F1 prima di essere bandita per ragioni di sicurezza.
LA LORO STORIA
L’avventura di Montoya e della Williams FW26 nella stagione 2004 si rivelò da subito più difficile del previsto. Il difetto principale della monoposto, emerso sin dai primissimi test, aveva origine proprio nell’innovativo muso. L’aumento di peso necessario a superare i crash-test, maggiore rispetto a quanto preventivato, sbilanciava eccessivamente la ripartizione dei pesi, rendendo molto complesso mantenere sulla distanza di gara le buone prestazioni sul giro secco. La base, infatti, non era completamente fallimentare, tanto che nella prima parte della stagione Montoya conquisto un secondo posto in Malesia ed un terzo posto ad Imola, dopo un’escursione nell’erba figlia di una chiusura muscolosa di Schumacher. L’arrivo dell’estate, ed il passare delle gare, convinse gli ingegneri dell’impossibilità di correggere adeguatamente il difetto intrinseco causato dal muso. Renault e BAR-Honda avevano ormai scavalcato nettamente la vettura bianco-blu, assumendo il ruolo di prime inseguitrici della Ferrari F2004, il problema più grande della FW26. Qualunque altra monoposto, in quella stagione perfetta per gli uomini in rosso, sembrava lentissima. Michael vinse 12 delle prime 13 gare: il progetto Williams, anche se dotato di un muso convenzionale, non avrebbe probabilmente migliorato granché la situazione. Tanto che, una volta introdotto realmente in Ungheria – la monoposto smise istantaneamente di essere associata a un tricheco -, l’anteriore stretto risolse solo parzialmente i guai della FW26: donò un bilanciamento migliore ma le prestazioni rimasero lontane da quelle dei primi. Come ad Imola e Montreal in primavera, sui circuiti veloci la Williams continuò ad eccellere in qualifica, permettendo a Montoya di segnare a Monza la media sul giro più alta della storia, superata da Raikkonen con la Ferrari solo nel 2018. In gara risultati arrivarono finalmente in Brasile, all’ultimo appuntamento stagionale, quando Juan Pablo vinse una corsa condizionata dall’asfalto umido. Il fallimento della campagna 2004, dopo i buoni risultati dell’annata precedente, incrinò definitivamente i rapporti tra Williams e BMW, tanto che il costruttore tedesco rilevò la Sauber nel 2005 per dare vita ad un’avventura solitaria, mentre Montoya prese subito la via di Woking.
Dall’episodio di Imola al tamponamento nel tunnel di Monaco costato la gara al tedesco, fino ad un sorpasso eccezionale a Spa, la stagione di Montoya e della Williams soffrì pesantemente dell’intreccio con Schumacher e la Ferrari. Il colombiano, destinato a sottrare al re la corona, finì schiacciato da un rullo compressore inarrestabile, esattamente come accadde all’innovativa FW26. L’uno e l’altra avrebbero di certo meritato di più.
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