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  • Immagine del redattoreLuca Ruocco

Il Merito e la (mancata) Umiltà


Esistono giornate di gara in cui la Formula Uno spaventa, come accaduto sette giorni fa; altre in cui annoia, portando spettatori e appassionati a chiedersi per quale misteriosa ragione abbiano deciso di passare la domenica pomeriggio auto-infliggendosi un misto di distacchi immutati, vittorie scontate e bandiere blu. Esistono però anche corse speciali, capaci di riappacificare il tifoso più deluso così come il cantore dei tempi che furono con quello che, in fondo, rimane uno sport meraviglioso.


Il Gran Premio di Sakhir appartiene all’ultima categoria. Non sarebbe stato così senza l’intervento della Safety Car, entrata in pista a ventiquattro tornate dal termine dopo un contatto di Aitken con le barriere esterne dell’ultima curva. La corsa sarebbe sicuramente entrata negli annali per la strepitosa vittoria di Russell, in totale controllo dal primo giro; il popolo Rosso – notoriamente dedito al masochismo – difficilmente avrebbe scordato il grave errore di Leclerc, frutto della foga di chi conosce il proprio destino (come dimostrato dall’orrido ritmo imposto dalla SF1000 a Vettel) e non vuole o non sa accettarlo, coltivando l’arte della pazienza. Un impeto di ottimismo suggerirebbe un futuro in cui, dopo gli ennesimi pit-stop lenti, la dirigenza tecnica del Cavallino affrontasse il problema, cambiando quanto è necessario (materiali? componenti? procedure?) perché i meccanici di Maranello smettano di accumulare figuracce in mondo visione.


Invece, l’entrata in pista della vettura di servizio ha cambiato il corso degli eventi, spianando la strada ai veri protagonisti di questa domenica tardo autunnale: il merito e l’umiltà. Il primo è stato finalmente premiato dalla Dea Bendata. La seconda ha brillato per la sua assenza, almeno in certe zone della pit-lane.


Non è la prima volta che i ragazzi del box Mercedes, messi sotto pressione, commettono errori clamorosi, dalla portata direttamente proporzionale all’eccellenza che altrimenti contraddistingue il team anglo-tedesco. In fondo godono dei meriti di una struttura tecnica eccezionale (quante volte negli ultimi anni è stata sostituita una Power Unit al sabato nel team della Stella?), sotto tutti i punti di vista, e di un pilota capace di smorzare qualunque pressione riguardante i titoli iridati con largo anticipo e sconcertante sicurezza. Rare volte, però, il meccanismo s’inceppa. È accaduto in Germania lo scorso anno, in condizioni limite e dopo un errore del tutto imprevedibile da parte di Hamilton. È accaduto oggi ad Al Sakhir. Nonostante il pasticcio riguardante l’incrocio dei set di Bottas e Russell sia responsabilità degli uomini ai box, la genesi dell’errore non può che ricadere sul muretto.


James Wolff, pluridecorato stratega Mercedes portato su un palmo di mano dai giornalisti di mezzo motorismo, ha peccato di superbia. Sarebbe bastato un pizzico d’umiltà, sconosciuta da tempo in casa Mercedes, per rendersi conto che sottoporre i meccanici all’ennesimo doppio pit-stop rappresentava un azzardo assurdo. Un rischio calcolato, sì, ma calcolato male, dato che con ogni probabilità, visto il vantaggio su Perez, Bottas avrebbe potuto benissimo fermarsi alla tornata successiva. Il gruppo era troppo distanziato perché la Safety-Car lo ricompattasse dopo un giro, peraltro cortissimo; in alternativa, perdere tre posizioni su una W11 equivale grosso modo a rimanere nella stessa, data la facilità con cui Valtteri avrebbe potuto compiere i sorpassi necessari ed agguantare nuovamente la piazza d’onore. Invece la dirigenza tecnica della Stella a tre punte, imitando quella sportiva, ha perso l’ennesima occasione di dimostrarsi umile e, soprattutto, vincente nello stile. I meriti della scuderia di Brackley non si discutono. Al contempo, però, gli episodi vanno accumulandosi: dal comunicato farsa di Melbourne alla vicenda Racing Point, dalla crociata motoristica condotta a mani sanguinanti fino al recentissimo annuncio della volontà di fornire a Grosjean, se la Haas non ne sarà capace, una vettura per testare una Formula Uno per l’ultima volta. Un inutile schiaffo all’insegna della celebrazione mediatica auto-imposta ai danni di una scuderia in difficoltà economica che, in merito, ancora non aveva pronunciato neanche mezza sillaba.


Passando ai risvolti più dolci della corsa bahreinita, non si può negare che nel deserto il vero trionfatore sia stato il merito. Una virtù che supera di slancio contratti e sponsorizzazioni, desideri di questo o quell’altro caposquadra. George Russell ha semplicemente umiliato Valtteri Bottas in gara, ben prima del clamoroso sorpasso dopo il regime di Safety-Car. Senza che ciò sminuisca le conquiste di Hamilton (un sillogismo che fa acqua da tutte le parti), le 87 tornate odierne hanno chiarito perché Bottas mantenga (e manterrà) il sedile a fianco di Lewis. È di certo un pilota eccezionale, ma la stoffa del campione è il tessuto in cui è intrecciata l’intera corsa di Russell. Una situazione prevedibilmente incompatibile con le mire, i piani e le volontà dell'epta-campione.


Il vincitore di giornata, Sergio Perez, merita in maniera così netta e inconfutabile il primo gradino del podio da rendere quasi superfluo, o banale, un commento a riguardo. Il messicano è stato baciato dalla fortuna sin dal contatto con Leclerc, ma a tratti dava l’impressione di poter conquistare il podio qualunque fosse stato l'andamento della gara. Nessuno ha messo in dubbio la legittimità della vittoria di Gasly a Monza, figurarsi se è possibile farlo dopo una corsa che vedeva il messicano, terminata la prima neutralizzazione, in coda al gruppo.


L’impietoso confronto con Albon, nuovamente lontano da prestazioni accettabili, impone una riflessione finale. Nella serata mediorientale il merito ha permesso a Perez di assaporare l'acqua di rosa più dolce della sua vita; possibile una sua tanto schiacciante, inconfutabile e ovvia presenza non sia abbastanza per assicurargli un sedile nel 2021 in Red Bull?


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