24 Marzo 1991. Le tribune dell’autodromo Josè Carlos Pace sono stracolme, ricordano il Maracanà durante una partita della nazionale verdeoro. In fondo Ayrton Senna, campione del mondo in carica, ha poco da invidiare, in quanto a capacità di mobilitare i brasiliani, ai ragazzi del pallone. Che poi, il paese sudamericano, prima del paulista, aveva saputo produrre piloti eccezionali come Emerson Fittipaldi e Nelson Piquet, entrambi pluricampioni iridati. Si sa, però: Ayrton è di più. Da prima di questa domenica di marzo, insomma da sempre, e per sempre. Il Mago, uno dei suoi soprannomi, riassume perfettamente quanto riesce a combinare in pista questo ragazzo, anzi quest’uomo, dallo sguardo malinconico, dall’attaccamento profondo al proprio paese sempre troppo lontano, alla moltitudine di persone molto, molto meno fortunate di lui che popolano il Brasile, verso le quali prova un silenzioso, intimo senso di colpa. Lui ce l’ha fatta, ha coronato il sogno di fare delle corse la sua professione, sfruttando al meglio le tante risorse di cui dispone papà Milton. Altri, quasi tutti, vivono molto vicini, se non in mezzo alla povertà: Ayrton ne è cosciente, tanto che ha organizzato ed organizzerà, fino alla sua morte, sempre più opere a sostegno dei giovanissimi brasiliani. Parlando di F1, vuole disperatamente regalare alla folla oceanica che lo sostiene una vittoria. Ci prova ormai da 7 anni, prima a Rio, poi ad Interlagos, alla periferia della città nella quale è cresciuto. Incidenti alla prima curva, squalifiche, gli arcirivali che alzano al cielo la coppa del vincitore al posto suo. Non deve, non può continuare la maledizione per la quale il suo popolo, il suo Brasile, ha visto soccombere in casa Ayrton prima a Piquet, brasiliano che ha subito percepito il diverso amore per Senna, reagendo meschinamente, poi a Prost, o cauteloso. È ora, è tempo, il 1991 sarà la volta buona.
Il cielo, sopra ai caschi dei piloti, è carico di quella pioggia che tante volte, nel corso degli anni, sconvolgerà le edizioni del GP del Brasile ad Interlagos. Le monoposto sono curiosamente schierate, in attesa del giro di ricognizione, a cavallo dell’ultima piega che compone l’Arquibancadas, prima delle caselle dalle quali scatteranno. Gli occhi sono tutti rivolti verso il Poleman, guarda caso dal casco giallo. Senna ha stampato un tempo inarrivabile per entrambe le Williams di Patrese e Mansell, lasciando ancora più staccato, in quarta posizione, il compagno di squadra Berger. Sì, è vero, le Williams-Renault sono cresciute tantissimo, potrebbero essere una minaccia. Ma insomma, parliamo di Senna, il campione del mondo, il più veloce pilota sulla Terra, un cannibale capace di spedire Prost fuori pista, pochi mesi prima a Suzuka, per vendicarsi del torto subito la stagione precedente, chiudendo così ogni discorso per il campionato. Non dovessero esserci problemi, la gara sembra destinata ad un finale tanto scontato quanto felice.
Si accendono i motori. La sinfonia di V12, V8 e V10 aspirati pervade la pista da poco ristrutturata. Senna comincia il giro di ricognizione da primo in classifica, dopo la vittoria di Phoenix. La stagione sembra promettere bene sin da subito, tutto sommato: la Ferrari ha perso la velocità dell’anno precedente, la Williams è rapida ma il suo cambio – organo meccanico del quale sentiremo ancora parlare in questo racconto – è ancora troppo fragile, dato che lo sviluppo della versione semiautomatica con palette al volante, novità introdotta due anni prima dalla Ferrari, crea più grattacapi del previsto. La McLaren Honda del brasiliano, invece, è un concentrato di elementi tanto competitivi quanto affidabili: il 12 cilindri nipponico, la trasmissione ancora manuale, un’aerodinamica semplice quanto raffinata, un pilota inarrestabile. Come confermato alla partenza della corsa. Ayrton s’invola, scappa via, inseguito da Mansell, capace di superare il compagno di squadra Patrese. Guarda te, avrà pensato Senna, se si deve mettere ad inseguirmi l’unico pilota che temo, l’unico di cui abbia paura. Il Leone d’Inghilterra è tignoso, non molla la presa, non lascia scappare la McLaren numero 1. I due sono gli unici a girare sul piede del 1’21””, mentre dietro i distacchi si amplificano anche a centro gruppo, dove la Ferrari di Prost, clamorosamente lenta, finisce a combattere con la Benetton di Piquet, senza riuscire a staccare troppo la Jordan di Gachot, pilota che avrà un ruolo fondamentale in una vicenda famosissima della stagione 1991 (ma questa è un’altra, celeberrima storia…).
Mansell si avvicina grazie ai doppiati, e la Williams decide così di provare a giocare la carta della strategia, fermandolo anticipatamente al giro 26 per l’unico cambio gomme previsto in gara. In questa occasione, per la prima volta durante la corsa, la trasmissione semiautomatica fa le bizze recalcitrando in fase di ripartenza, allungando così la sosta fino a 14”59. La McLaren risponde cogliendo l’attimo, e Senna al giro seguente esce in testa dai box dopo una sosta allora considerata velocissima (6”93). Mancano 44 giri al termine della competizione. Un’eternità per Ayrton, per la scuderia di Woking, per la torcida brasiliana. Il compito che si prospetta davanti a Senna non è dei più difficili: anche se Mansell dovesse avvicinarsi, non sembra avere tanto vantaggio da poter sferrare un attacco. Ayrton deve solo gestire la corsa, la vettura, il ritmo e, nel caso, pensare a difendersi. La gara non è delle più frizzanti, e così la regia televisiva propone spessissimo l’on-board della McLaren numero 1. La telecamera posta appena a lato dell’airscope regala allo spettatore l’opportunità di tuffarsi dentro alla danza del Mago: il collo, dato il capo molto più libero nelle vetture d’allora, ondeggia in un modo unico, particolarissimo, coordinandosi perfettamente con i gesti del pilota e la sinfonia del motore. Togli gas, frizione giù, via la mano destra dal volante, cambio marcia, stacca la frizione, ricomincia l’urlo poderoso del propulsore Honda. Tutto in pochi decimi di secondo, sfuggevoli eppure percepibili, carezze di una samba della guida decisa, ritmata, incantevole. Piano piano Mansell si avvicina, fino a quando, al giro 50, non subisce una foratura lenta. Chances di vittoria sfumate per l’inglese, che dopo il pit-stop finirà per ritirarsi con la trasmissione KO.
Sorrisi, ovazioni, cuori gonfi di felicità. Il nemico pubblico numero uno di quel pomeriggio, il baffone che guida la Red Five, non è più una minaccia. Gli sguardi si incrociano gioiosi in tribuna. Ayrton, l’Ayrton di questa città, ce la sta per fare. Mancano solo 11 giri, Patrese con l’altra Williams è a 40”. Non dovessero esserci imprevisti, la vittoria arriverà in un quarto d’ora circa.
Il destino beffardo, atroce, senza pietà, decide che per Senna non è finita, non sarà una passeggiata. Il cambio, quel diavolo di cambio che tra una monoposto e l’altra aveva deciso di prendersi la scena quella domenica, cede anche sulla vettura di Ayrton. Prima solo la quarta marcia, poi, via via che passano le tornate, anche la terza e la quinta. Senna è costretto a guidare in sesta per gli ultimi sette giri. La marcia più alta, quella che normalmente utilizza, per poco tempo, solo due volte al giro. Talmente alta da rendere probabilissimo uno stallo, talmente alta da rendere il volante, ai tempi senza servosterzo, di pietra nelle curve più lente. Il vantaggio nei confronti di Patrese è sceso a 14” a 5 giri dal termine. Il cielo è sempre più nero. Cala il silenzio su Interlagos. È tornata la maledizione della gara di casa per Ayrton. La McLaren-Honda sembra un animale ferito nelle curve lente, produce un suono bassissimo, rauco, sofferente, prima di guadagnare lentissimamente giri durante gli allunghi. Senna non ce la farà mai, non ce la può fare. Ci vuole un miracolo, un qualcosa di imponderabile, perché il distacco tra le due monoposto, a 3 giri dalla fine, è sceso a 5”4.
Vi siete mai chiesti se il cielo abbia nazionalità? Sicuramente, in quel pomeriggio grigio, sopra Interlagos era brasiliano. Le poche gocce fin li cadute si tramutano in pochi secondi in vera e propria pioggia. Ayrton, ora, può provare davvero a resistere. Può dimostrare al mondo intero quanto speciale sia il suo rapporto con l'acqua in pista, condizione nella quale ha saputo dipingere le pagine più belle della sua carriera, ergendo a tela l'asfalto lucido di pioggia. Il dolore alle braccia cresce, il motore sembra prendere potenza sempre più lentamente, le mani non cercano più la leva del cambio. Afferrano saldamente il volante, tramite il quale dialogano con le gomme, con l’asfalto sempre più umido. Passa un giro, il cronometro segna 4”1 di vantaggio. Ne passa un altro: 3”6. Le tribune diventano un corpo unico, iniziano ad urlare, a muoversi, come una marea lunga centinaia di metri. Senna affronta la prima chicane, ora titolata a lui. Poi giù, verso la doppia piega a sinistra che conduce al settore centrale, pieno di pieghe lente dove l’unità Honda sembra sul punto di ammutolirsi. Non lo fa, non cede, Ayrton può incominciare per l’ultima volta la salita verso il traguardo. Pochi secondi dopo, l’intera nazione esplode in unico, grande boato: Ayrton Senna ha resistito. Ayrton Senna ha vinto il Gran Premio del Brasile. Dentro al casco, però, il boato non si sente. Perché è coperto da altro:
Ayrton Senna fermerà la sua vettura pochi metri dopo il traguardo, sulla “Reta Oposta”, dove viene circondato da commissari in pieno delirio festaiolo. Giunti i medici FIA il brasiliano, dopo una faticosa uscita dalla vettura dovuta agli spasmi causati dallo sforzo, raggiungerà sulla Medical Car il podio di Interlagos, dove faticherà ad alzare la coppa del vincitore nel pieno di una forte commozione. Senna, prima di morire ad Imola il primo maggio 1994, vincerà solo un’altra edizione del GP di casa, nel 1993.
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