Il nome di Jim Clark è noto a qualunque appassionato di automobilismo sportivo. Noto, sì, ma lontano. Riecheggia tra i nomi dei grandi piloti del passato, appartenenti ad un'era mitica delle corse ma ormai dimenticata. Le riprese televisive delle sue gesta sono scarsissime, così conoscerle rimane confinato alla buona volontà, al palato fine di chi ha un cervello a quattro tempi. Non esiste un equivalente del video di Donington 1993 davanti al quale rimanere a bocca aperta, o il racconto di chi ebbe la fortuna di ammirarne porzioni di gara condotte a ritmo di qualifiche come accade per Schumacher. Navigare nella leggenda di Jim Clark richiede sforzo, tempo, voglia. Ma ne vale la pena, eccome se ne vale la pena.
I numeri, da soli, bastano per rimanere senza parole. Non raccontano tutto, ma vale la pena snocciolarli. Jim Clark prese parte a 124 Gran Premi di F1 in carriera, di cui 73 valevoli per il mondiale (ai tempi le gare fuori classifica era tanto importanti e partecipate quanto quelle iridate). Ne vinse in tutto 49, ossia il 39.5%. Il record di 25 vittorie iridate (34.25% delle gare disputate) resistette fino al 1973, quando fu battuto dal connazionale e grande amico Jackie Stewart. Il numero di Pole Position conquistate (33) e di giri veloci (28) fu battuto solo oltre vent’anni dopo la sua morte da un certo Ayrton Senna. La statistica che più di qualunque altra racconta il talento dello scozzese è però un’altra: il numero di secondi posti in F1. Uno. Jim Clark, nelle corse valevoli per il mondiale, giunse secondo al traguardo una volta sola. Altre quattordici si classificò tra i primi sei. Per il resto, o vinceva o si ritirava (quasi sempre a causa della fragilità delle sue Lotus).
Jim Clark era imprendibile. Jim Clark era divino. Jim Clark non riusciva a spiegarsi il perché. Tra le varie sfaccettature di una personalità infinitamente complessa, perfettamente figurata dal continuo, incessante mangiarsi le unghie, spiccava una costante mancanza di fiducia nei propri mezzi. Jim, seppur riconoscesse il proprio talento, più che altro faticava a comprendere come gli altri non guidassero veloce quanto lui. Probabilmente non doveva sembrargli così difficile, ed in fondo la percezione cambiava di poco anche per chi si accomodava al suo fianco su una vettura. Nel 1967 un ricco viticoltore francese, Pierre Bardinon, costruì un circuito privato a Mas du Clos. Quando Clark visitò la tenuta, Bardinon gli propose di guidarvi la sua Ferrari 412 P3, un prototipo biposto al tempo protagonista delle corse Sport. Era presente anche Jabby Crombac, un giornalista francese grande amico dello scozzese, che si sedette accanto a Jim mentre questi provava per la prima volta la vettura. Terminato qualche giro, Crombac ringraziò Clark per aver evitato di spaventarlo guidando troppo forte. Aperto lo sportello, fu accolto dal sorriso radiante di Bardinon: avevano appena ritoccato il record della pista.
Jim Clark accarezzava le vetture. Volava – e vinceva – guidando Formula 1, Formula 2, vetture Indy (conquistò la 500 miglia nel 1965), modelli turismo come Lotus Cortina o Jaguar D-Type. I primi passi di Jim nel mondo del motorismo sportivo furono con la Ecurie Agricole, una scuderia fondata da agricoltori scozzesi dei Borders, regione a sud di Edinburgo. Fino alla scoperta delle automobili da corsa il destino di Clark era chiaro: gestire una delle fattorie familiari. Non che gli dispiacesse, anzi: per metà della sua carriera si divise tra fine settimana di gara, prima in tutto il Regno Unito e poi in Europa, e lunghe giornate di lavoro a Edington Mains, la tenuta principale di famiglia. Rimase per tutta la vita legatissimo alla propria terra, tanto da evitare accuratamente di venire fotografato assieme a ragazze durante i weekend di gara, anche da campione del mondo di Formula 1. Aveva paura di dare un’immagine troppo frivola di sé, di smettere di fare parte dell’ambiente al quale era sempre appartenuto. Anche quando ormai era conosciuto ovunque, circondato da stuoli di donne adoranti (la cui compagnia non disdegnava minimamente) e guadagnava più di tutti gli abitanti dei Borders messi assieme.
La difficoltà con la quale abbandonò definitivamente il controllo della fattoria ai tempi della Formula 1 era segno di una singolare e continua incapacità nel prendere decisioni. Non sposò la propria fidanzata storica perché tormentato dai dubbi riguardo ad un matrimonio mentre ancora correva, fino a quando lei, dopo un ultimatum ignorato da Jim, finì per convolare a nozze con un altro pilota olandese. Faceva addirittura fatica a scegliere i mobili per la casa al mare, come raccontato da Helen Stewart, moglie di Jackie. Dentro ad un’automobile da corsa tutto questo svaniva. Era libero, spietato, velocissimo. Talmente talentuoso da diventare, paradossalmente, quasi deleterio allo sviluppo di una vettura, perché durante un test ne copriva i difetti migliorandosi costantemente. Nel 1967 a Zandvoort, gara d’esordio del mitico motore Cosworth DFV, scese in pista in prova con la nuova Lotus 49 dotata di assetto morbido, da lui quasi sempre preferito. Vista la necessità di scoprire a fondo la monoposto, passò all’assetto più rigido di Graham Hill, migliorandosi. Tornato indietro abbassò nuovamente il tempo (ovviamente poi vinse la corsa), rimanendo del tutto indeciso rispetto a quale assetto adottare. Non contava, lui andava oltre.
Jim era timido, riservato, a tratti schivo. Quasi faticava – a parte per le ragazze – a realizzare l’enorme popolarità donatagli dalle imprese portate a termine nei circuiti di tutto il mondo. Nel 1963 vinse sette delle dieci corse valevoli per il mondiale di Formula 1; a Spa, sotto un diluvio incessante, conquistò la corsa con un vantaggio di quasi cinque minuti su Bruce McLaren dopo aver guidato gran parte della corsa con una mano sola, mentre l’altra teneva ferma la leva del cambio, eccessivamente ballerina quando veniva inserita la quinta marcia. Nel 1965 si laureò Campione del Mondo di Formula 1 e sbaragliò la concorrenza ad Indianapolis (dove arrivò secondo nel 1963 e nel 1966), facendo sua una doppietta mai più ripetuta da un pilota in un’unica stagione. La sua corsa più bella fu Monza 1967, quando a causa di una foratura si ritrovò doppiato e in coda al gruppo dopo pochi giri. Si fece velocemente largo tra gli avversari, sdoppiandosi e raggiungendo i primi a poche tornate dalla conclusione. Li superò senza problemi, involandosi verso una vittoria che gli fu negata dal calo della pressione della benzina proprio nel giro finale. Arrivò terzo, ma fu portato ugualmente in trionfo dalla folla presente in Autodromo: non successe mai più ad un pilota sprovvisto della tuta Ferrari. Fu l’unica volta in cui Jim ammise di aver raggiunto il suo limite. Nelle altre occasioni, semplicemente, non era necessario.
Il 7 aprile 1968, durante una corsa di F2 ad Hockenheim, l’esplosione di uno pneumatico non gli lasciò scampo. La vettura, incontrollabile, svanì come un proiettile negli alberi. L’intero mondo delle corse finì sotto schock: colui che sembrava immortale, sempre in controllo, era stato tradito dall’imponderabile.
Un Disk Jockey di Los Angeles, a mezzogiorno, diede la notizia della morte dello scozzese. Aggiunse, probabilmente senza sperare in grandi risultati, di accendere gli abbaglianti per ricordarlo.
L’intera autostrada si illuminò in unico bagliore.
Jim Clark: oltre la leggenda.
L'articolo prende spunto dal libro - consigliatissimo - Jim Clark, Racing Legend di Eric Dymock, ed. Motorbooks International.
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